Solo le stelle
Cosa significa viaggiare?
Molti associano al “viaggio” una valenza estremamente positiva, un qualcosa di emozionante, che segna l’inizio di un’avventura che li porterà a vedere chissà quali nuovi mondi. Per altri si tratta semplicemente di lavoro, di un modo per spostarsi da un pianeta all’altro. Altri ancora, come gli equipaggi della Flotta Stellare, considerano il viaggio come parte integrante della propria vita. In un certo senso è la loro “casa” che si sposta assieme a loro.
Quale che sia il significato di “viaggio”, per tutte queste persone il viaggiare è spesso associato ad un significato “sociale”: in altre parole, non lo si fa mai da soli. In un equipaggio, stabile o temporaneo che sia, a meno di spiccati sintomi di misantropismo, difficilmente ci si ritrova a non poter scambiare quattro chiacchiere col vicino di alloggio o in sala mensa di un qualsiasi nave da trasporto. Non parliamo degli equipaggi della Flotta: quelli sono veri e propri “villaggi” erranti dove tutti sanno tutto di tutti, come in quei pochissimi paesini sperduti sul globo terrestre, dove c’è ancora qualche vecchia signora che spettegola del flirt tra il suo vicino di casa e l’orioniana appena trasferitasi in città per lavoro.
Per me viaggiare significa pensare. Il mio cargo trasporta pezzi di ricambio di vario genere: dai componenti dei risequenziatori ai serbatoi di deuterio (vuoti, ovviamente!). E viaggio sempre e costantemente da solo. Una scelta di vita? Una vocazione da eremeti? No. E’ semplicemente andata così. Ho iniziato quando avevo poco più di vent’anni, con uno sgangherato trasporto che a malapena reggeva curvatura quattro e poi via via sono diventato uno dei trasportatori più apprezzati del quadrante, grazie anche alle mie capacità commerciali. Poco tempo per pensare ad una compagnia stabile (avventure escluse), troppo pigro perfino per impegnarmi con un animale domestico a bordo.
Eccomi quindi qui a raccontare la mia solitudine. E ne parlo con assoluta felicità, perché, come ho già scritto, mi aiuta a pensare ed ascoltare me stesso. Il rumore di qualche paratia che vibra, il ronzio dei motori, il sibilo di un condotto di areazione… sono tutti suoni che accompagnano la mia quotidianità e, in un certo senso, sono ormai parte di me. Se voglio proprio raggiungere la pace dei sensi, salgo sul punto più alto della mia nave, dove ho fatto allestire, grazie ad un buon amico tellarite, una specie di piccola alcova con un letto, leggermente sporgente rispetto allo scafo dorsale. Lì, in quel privilegiato punto di osservazione fatto per due terzi da pannelli trasparenti, mi stendo e passo ore ed ore a guardare le stelle stiracchiarsi per effetto del motore warp.
C’è il silenzio più totale lì, lo ho chiesto con insistenza al mio buon amico tellarite. Volevo un posto dove l’isolamento, anche acustico, fosse totale. Solo io, i miei pensieri e le lucenti compagne di tanti viaggi. Quando l’infinità dello spazio mi avvolge, mi sento come una piccola goccia d’acqua che si ricongiunge con l’oceano.
Non c’è nulla oltre me, solo le stelle.
Gene Yates